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Home » News » Una moneta per Napoli, cosa non voleva dire De Magistris
07/10/2021

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Una moneta per Napoli, cosa non voleva dire De Magistris

Articolo a cura di Vincenzo Imperatore

Siamo il Paese con il più alto tasso di ignoranza finanziaria del vecchio continente. E non è solo un problema dell’ormai iconica vecchietta da cui non si può pretendere che impari a leggere il Financial Times. L’incompetenza in materia finanziaria investe, invece, anche opinion leader e rappresentanti della politica oltre ovviamente ai webeti tuttologi che hanno inondato i social di commenti superficiali e ironici, quando non offensivi, per la dichiarazione del sindaco di Napoli Luigi De Magistris di introdurre una moneta complementare, il Partenope, per agevolare gli scambi di beni e servizi prevalentemente all’interno della comunità partenopea.

Uno scambio di ignoranza avvilente, probabilmente sollecitato anche dal modo in cui è avvenuta la comunicazione del sindaco che ricordiamo oggi di mestiere fa il politico e necessariamente deve utilizzare un linguaggio conciso e populista, termine che occorrerebbe definitivamente sdoganare dalla sua illetterata accezione. Ma cosa non ha voluto dire De Magistris quando ha parlato del Partenope? Il Partenope non è e non può essere:
1) Una moneta di corso legale che può essere emessa, stampata e coniata, solo dalle banche centrali;
2) Una moneta virtuale (non è qualcosa di simile ai Bitcoin, ecc);
3) Un sistema di baratto (perché il baratto è solitamente immediato e unilaterale, cioè io do qualcosa a te, tu la dai a me: con il Partenope io do qualcosa a te e poi posso comprare 1, 2, 3 altre cose da altre persone, facendo leva sui crediti accumulati).

Il Partenope dovrebbe essere una moneta complementare. Si tratta di uno strumento di pagamento parallelo e integrativo della moneta tradizionale, una modalità di transazione tra aziende (inserite in un circuito di corporate barter) con forma di pagamento in merci e servizi che vengono valorizzati attraverso una unità di conto digitale basata sulla equazione 1 Partenope = 1 Euro; in altri termini il corporate barter consente alle aziende che hanno poca liquidità e a cui le banche hanno ridotto o chiuso gli affidamenti di pagare gli acquisti con la vendita dei propri prodotti. E si ritorna alle origini. Non perché mancano i beni o i servizi (anzi, ce n’è una quantità eccessiva), ma perché manca la moneta o quantomeno non circola.

E se la moneta non gira, non crea mercato. E la produzione, di qualsiasi tipo, implode. Quindi da qualche anno (Oltreoceano esiste dalla crisi del 1929) si sta sviluppando anche nel nostro Paese (il più conosciuto è il Sardex) tra la comunità delle aziende, soprattutto piccole e medie imprese, un sistema che non produce liquidità, ma che sicuramente ne fa risparmiare tanta: il corporate barter, una compensazione multilaterale tra aziende che avviene tramite network molto conosciuti sul web in cui è previsto lo scambio di beni e servizi attraverso l’uso di monete complementari.

Si paga una quota associativa che mediamente costa circa il 5% dei movimenti. I dati della Irta (International reciprocal trade association) riportati da Bloomberg stimano negli Stati Uniti un mercato da 12 miliardi dollari all’anno in transazioni che non prevedono scambio di valuta. A chi si rivolgono i circuiti di corporate barter? Soprattutto commercianti con fondi di magazzino che in tal modo hanno il vantaggio di promuovere il proprio invenduto, ma anche fornitori di servizi che non hanno materiale da scambiare e a cui risulta più semplice il do ut des.

Il baratto tra aziende, come abbiamo detto, è multilaterale, cioè avviene tra soggetti diversi e può essere effettuato al 100% in natura oppure pagando una parte in denaro. Lo schema è semplice: A vende a B che vende a C che a sua volta vende ad A; in tal modo il corporate barter non solo rappresenta una strategia finanziaria anti-crisi, ma anche una forma nuova di marketing per piccole imprese, tra l’altro sempre percorribile, perché permette di allargare il mercato di riferimento delle aziende che arrivano, in tal modo, a intercettare clienti e territori che prima non erano mai riuscite a raggiungere monetizzando prodotti o servizi disponibili o risultanti da una capacità produttiva finora inespressa.

Al momento dell’ingresso nel network, successivo all’analisi della solvibilità dell’aderente, viene concesso alle aziende un piccolo fido, meglio dire una disponibilità di acquisto (perché non genera interessi di alcun tipo), con cui possono fare le prime transazioni. Ogni azienda che aderisce al circuito apre quindi un conto che gestisce la contabilità in entrata e in uscita dei valori corrispondenti alle vendite o agli acquisti. Per cui se l’azienda va “a debito” (cioè ha acquistato più di quanto ha venduto) si salda semplicemente, a fine anno, vendendo merce o offrendo un servizio per un importo pari a quanto acquistato.

Se poi l’azienda non vuole rinnovare la quota associativa, si salderà in denaro. Se invece va a credito (cioè ha venduto più di quanto ha acquistato) quest’ultimo si estingue solo facendo acquisti in barter, in qualsiasi momento e senza alcuna scadenza, e mai convertendo in denaro il credito. L’unico handicap riscontrato sta nella legislazione vigente (in Italia, ovviamente) che limita fortemente una società di barter a dare piena soddisfazione a tutte le richieste di acquisto e vendita di beni e servizi in compensazione multilaterale: tasse (è solo un piccolo passo il baratto amministrativo introdotto con il decreto Sblocca Italia del novembre 2014), utenze e oneri finanziari non sono ancora “barterizzabili”. Come mai? Immaginate un po’.

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