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La droga del debito che alimenta la relazione tra Stato e banche
L’istituto compra bond pubblici e in cambio le istituzioni non sindacano sui suoi affari meno nobili. Anche la finanza, in fondo, vive di questo. Di regole che nessuno applica.
Articolo di Vincenzo Imperatore su Lettera43
La settimana scorsa abbiamo affrontato il tema riguardante l’indice Nsfr (Net Stable Funding Ratio) che dal 2018 dovrebbe rappresentare un “indicatore” della liquidità (e quindi solidità) del sistema delle banche e della intrinseca capacità di reagire a eventi traumatici, su un orizzonte di tempo limitato (un anno). Ma, come abbiamo dimostrato, si tratta di una spia “truccata” alla fonte. Ma perché Basilea ha voluto edulcorare questo indicatore? Perché consentire alle banche di “annacquare” – o se preferite “edulcorare” – l’indice con quella parte di somme che hanno una scadenza minore ai 12 mesi? Semplice: perché le banche private hanno nei loro portafogli decine di miliardi di titoli di Stato. Gli istituti di credito privati sono da sempre i primi che vanno in soccorso e incontro allo Stato per finanziare il debito pubblico. Se gli organi di vigilanza non “aggiustassero” in quel modo la normativa del Nsfr, le banche potrebbero, per esempio, per mettersi “in regola” con la questione delle scadenze, sbarazzarsi, vendendoli, di tutti i titoli di Stato (soprattutto Btp a tre o cinque anni, che non rendono praticamente nulla), e sostituirli con altri titoli, più a breve termine. E questo, all’Autorità europea centrale, non conviene. Ecco perché poi “aggiustano” le normative a vantaggio delle banche.
UNA RELAZIONE PERICOLOSA. Il dramma dell’Europa è il finanziamento del debito pubblico, che oggi possono e devono fare soltanto le banche. Perché i risparmiatori il debito pubblico non se lo “comprano” più. Di tanto in tanto l’Europa finge di svegliarsi. Ma poi si volta dall’altra parte e riprende a sonnecchiare. «Bisogna impedire al mondo del credito di finanziare lo Stato, acquistando titoli di debito pubblico come accaduto negli anni della crisi», ha tuonato pochi mesi fa il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Poi si è riaddormentato. E la relazione incestuosa è proseguita, con le conseguenze che sappiamo. Quella tra le banche private e lo Stato è davvero una relazione pericolosa (soprattutto per noi correntisti). Con il finanziamento del debito pubblico sappiamo infatti che le banche forniscono una “stampella” allo Stato. Questo aiutino avviene attraverso un massiccio acquisto di Buoni ordinari del Tesoro (Bot), Buoni del Tesoro poliennali (Btp) e Certificati di credito del Tesoro (Cct). Così facendo, i governi finanziano il proprio debito – anche se non gratuitamente, certo – e le banche, acquistando titoli a “rischio zero”, raggiungono gli obiettivi di solidità patrimoniale richiesti dalla vigilanza.
All’inizio della crisi, nel 2011, quando gli indicatori macro-economici si sono fatti tutti negativi, le banche italiane avevano nelle loro casse 240 miliardi di euro in Btp e in altri titoli di Stato, lievitati a oltre 400 miliardi nel 2014-2015 e diventati 635 miliardi alla fine del 2016. Un mare di soldi, dunque. Come mai così tanta generosa “accoglienza” delle banche nei confronti dello Stato? Il mio dubbio è che, lungi dall’essere paladine di una causa sociale o morale, le banche siano più prosaicamente interessate, per convenienza e per opportunismo, a tenere una poltrona riservata nel salotto buono delle lobby. Patti chiari, amicizia lunga: la banca compra i titoli di Stato e in cambio lo Stato, cioè anche Bce, Banca d’Italia, Consob e commissioni parlamentari, non rompe le scatole sugli affari meno nobili, chiamiamoli così, dell’istituto. Questo è il succo. Anche la finanza, in fondo, vive di questo. Di regole che nessuno applica.